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Il Sessantotto in Facoltà teologica
 

Nel 1968 avevo 24 anni e frequentavo l’ultimo anno di teologia nel seminario regionale di Cuglieri. Erano gli anni del post Concilio e soprattutto tra noi studenti cresceva l’attesa per il rinnovamento ecclesiale auspicato dai testi conciliari. L’organizzazione degli studi della Facoltà, che ancora distingueva gli studenti in accademici e ordinari e che applicava un regolamento ormai superato, aveva portato alla costituzione di un gruppo determinato a rivendicare cambiamenti radicali sia nel sistema degli studi che nel rapporto di noi studenti col corpo docente. Questa volontà di richiedere sostanziali riforme si concretizzò nel mese di dicembre del ’68. Fu costituito il Consiglio studentesco e il sottoscritto ne divenne il presidente. Elaborammo un nostro documento e iniziammo il confronto (e talvolta, lo scontro) con la controparte (vescovi e docenti). Chiedevamo un reale nostro coinvolgimento nella programmazione della vita accademica e l’abolizione, perché ritenuta discriminante, della suddivisione degli studenti in accademici e ordinari. Si tennero assemblee e si arrivò anche al blocco delle lezioni. Fu il mio Sessantotto. Come si vede l’ondata rivoluzionaria di quegli anni non risparmiò neppure l’ambiente austero dei seminari. Una delle formule con cui il Concilio definì la Chiesa fu quella di “popolo di Dio”. Di questa affermazione si evidenziava il concetto di “comunione”, dell’eguale dignità tra tutti i suoi componenti e, quindi, del diritto, in forza del proprio battesimo, a vedersi riconosciute forme di partecipazione e di corresponsabilità. Si auspicava una Chiesa più orientata alla salvaguardia dell’unità fra i suoi membri, piuttosto che della sua struttura gerarchica. Non a caso, fu proprio a partire dal Sessantotto che nacquero le “comunità di base” finalizzate a realizzare un effettivo coinvolgimento dei fedeli nella edificazione della Chiesa, non di raro in polemica con le direttive della Gerarchia.
Un’altra novità, anche in ambiente ecclesiale, fu il diritto alla “presa di parola” nelle assemblee e nei luoghi in cui si era chiamati a deliberare. Per la società civile si trattò della rivendicazione della base ad essere ammessa alla gestione della cosa pubblica, nella Chiesa ad essere consultati in campo amministrativo e pastorale. Come non ricordare, ad esempio, don Lorenzo Milani che attraverso la riappropriazione della parola aveva restituito dignità culturale e sociale a contadini ed operai? Non si dimentichi che, fino a quel periodo, anche nella Chiesa, la “parola” era diritto (quasi) esclusivo dell’autorità gerarchica. Può darsi che alle nuove generazioni appaia sorprendente il fatto che, quarant’anni fa, si fosse riusciti ad essere protagonisti di grandi cambiamenti pur trovandosi nel chiuso di un seminario. L’idea che un piccolo centro come Cuglieri restasse impenetrabile ai venti di rinnovamento e di contestazione che coinvolsero le grandi sedi universitarie d’Europa, non risponde però al vero. In realtà, tra noi studenti di teologia, le manifestazioni iniziarono addirittura mesi prima rispetto alle facoltà laiche d’Italia. Certo, non ci fu l’accanimento e l’esasperazione che contrassegnarono le manifestazioni di piazza e la lotta dura e ad oltranza delle grandi masse studentesche, ma l’azione fu altrettanto decisa. Tra gli intellettuali laici che diventarono punti di riferimento per la protesta sessantottina vanno in primis ricordati Herbert Marcuse, abile nell’elaborare una sintesi tra le teorie di Marx e quelle di Freud, e Louis Althusser che con i suoi scritti spinse a rivoltarsi contro il sistema scolastico e universitario ritenuto ormai autoritario e chiuso. Per noi, naturalmente, i maestri non erano questi, ma il Concilio Vaticano II con le spinte al rinnovamento presenti nei suoi documenti.
Il Sessantotto lo si considera responsabile di molti errori ed eccessi, come il rifiuto del principio di autorità e dei relativi ruoli (genitori-figli, docenti-studenti, datori di lavoro-operai). Gli si contesta inoltre di avere favorito la militanza di molti giovani in frange radicali che poi sfociarono nella lotta armata contro lo Stato e i suoi servitori e di essersi ridotto a una visione ideologica contro il così detto “Stato borghese”. Al di là di questi rilievi, certamente condivisibili, non mi pare corretto fare di quel movimento il contenitore di tutti i mali. La sua spinta alla partecipazione e all’azione riformatrice delle strutture sociali (ed ecclesiali) resta ancora oggi un valore.

 

Don Giovannino

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