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Il Vangelo di Marco e la comunicazione
 

Continua il cammino del gruppo “Agorà dei giovani”. Giovedì 4 gennaio ci siamo visti impegnati in una giornata di riflessione nel seminario di Villacidro. Il tema trattato è stato la comunicazione verbale e non verbale letta in chiave religiosa.
Divisi per gruppi, abbiamo preso in mano il Vangelo di Marco ed abbiamo cercato all’interno di alcuni capitoli le situazioni in cui Gesù utilizzava il linguaggio non verbale per far capire i suoi insegnamenti.
Dopo aver analizzato i passi del Vangelo, abbiamo discusso sull’efficacia di entrambe i modi di comunicare anche all’interno delle nostre esperienze personali.
Dalla discussione è emerso che, a tutti i livelli la comunicazione non verbale assume un valore molto importante e che viene utilizzata da tutti: bambini, giovani, adulti e anziani, perché aiuta a creare maggiore intesa, maggiore complicità tra chi parla e chi ascolta.. Questo tipo di comunicazione però, secondo noi si pone sullo stesso piano di quella verbale, poiché, come possiamo notare anche all’interno del Vangelo di Marco, spesso il linguaggio verbale e non verbale risultano intimamente connessi. La comunicazione non verbale soprattutto tra noi giovani è il primo approccio per relazionarsi con gli altri, perché consente di manifestare o interpretare più facilmente dei sentimenti e degli stati d’animo.
Abbiamo considerato inoltre che in questo tipo di comunicazione, ha un valore molto importante l’espressività del volto, e in modo particolare, lo sguardo, come ci suggerisce il Vangelo di Marco quando si parla del giovane ricco: “Gesù, fissatolo lo amò”(Mc 10,21). Oppure abbiamo notato lo sdegno di Gesù per i discepoli che discutevano fra di essi su chi si sarebbe seduto alla sua destra o alla sua sinistra, o ancora lo stupore e il timore di questi ultimi per le diverse profezie della passione fatte da Gesù.
Il Vangelo mostra quella che è la realtà della comunicazione: Gesù, il Verbo, è il mezzo attraverso il quale Dio ci parla, e noi dobbiamo essere sempre disposti ad ascoltarlo così come ascoltiamo i nostri fratelli.
Noi, giovani adolescenti, entrando in contatto con realtà ed esperienze sconosciute dobbiamo cercare di relazionarci con gli altri mostrandoci disponibili all’ascolto e al dialogo costruttivo. Un dialogo fatto anche di una comunicazione non verbale che denota tutte le peculiarità del carattere di ognuno di noi.

 

Stefano Mais, Emanuela Trudu, Michela Aresti, Elisabetta Piras, Francesca Salis, Jessica Pisano, Andrea Sciola & Emmanuele Deidda

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  Il genocidio armeno
 

Ascoltando distrattamente la televisione, mi sono imbattuta nella frase “genocidio armeno”; queste righe nascono dall’esigenza di saperne di più su un avvenimento così terribile, e a me fino ad ora sconosciuto. L’Armenia è una regione dell’Asia sud-occidentale, che è sempre stata terra di conquiste:da parte di persiani, romani e dei turchi ottomani, artefici di ciò che adesso tentiamo di ricordare, e che gli armeni chiamano “Grande Male”. L’episodio più clamoroso avvenne nel periodo precedente la prima guerra mondiale, sotto il governo dei Giovani Turchi. L’Armenia, che lottava da anni per il raggiungimento dell’indipendenza, era in quel momento aiutata sia dalla Russia, sia dalla Francia, nella costituzione di un esercito armeno che potesse contrastare i conquistatori. Per questo motivo, o con questa scusa, i Giovani Turchi procedettero all’esecuzione immediata di trecento nazionalisti, e fecero deportare la maggior parte della popolazione armena. Nelle marce della morte, che coinvolsero 1.800.000 persone, centinaia di migliaia morirono di malattia, fame o sfinimento. Gli altri furono massacrati dalla milizia curda e dall’esercito turco, per un presunto totale massimo di un milione di morti. Secondo alcuni storici l’obbiettivo dei turchi era la formazione di uno stato religiosamente omogeneo, dal quale andava perciò eliminata la maggioranza cattolica armena. Secondo altri non si è trattato di un genocidio, in quanto non fu un’azione sistematica contro un’etnia, ma la semplice reazione alla minaccia di una ribellione. Ma la cosa più spaventosa della situazione, se già essa non ci sconvolge abbastanza con la sua assurdità, è il fatto che tuttora il governo turco non si senta responsabile di tali avvenimenti, ma anzi rifiuti di considerare l’episodio un olocausto. Come si potrebbe chiamare allora l’eliminazione, non di un esercito ribelle armato contro i conquistatori, ma di uomini, donne, bambini, vecchi, che si trovavano nelle loro case, totalmente sottomessi e incapaci di qualsiasi azione rivoluzionaria? Come si definisce la deportazione, la trucidazione, la sofferenza inflitta ad un intero popolo, qualsiasi siano le motivazioni (politiche o religiose) che la suscitino? Nel nostro ricordare le brutture compiute dall’uomo, vorrei allora che commemorassimo, non solo gli armeni, ma anche tutti gli altri popoli, che nel corso dei secoli hanno subito la crudeltà dei propri simili, spinti dalla bramosia di potere. Perché la storia è andata così, perché si è ripetuta, come vediamo, innumerevoli volte, perché il sacrificio e il dolore di milioni di persone non sia stato totalmente inutile, e con la speranza che impariamo, una volta per tutte, a non commettere mai più simili azioni.

 

Delia Usai

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