Parrocchia Santa Barbara Villacidro
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Santa Barbara Villacidro
                   
               
 
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Un passato nel passato: l'Asinara, il "Lazzaretto" del Mediterraneo

L'ultima cena di leonardesca memoria, dipinta sulla parete sinistra di Santa Barbara, è stata per i bambini del mio tempo una viva lezione di catechismo, una pagina importante del Vangelo, dipinta nella nostra parrocchia da un artista rimasto ignoto, se non per l’unica notizia che si ha di lui. Il pittore era un prigioniero austriaco mandato in Sardegna con altri prigionieri austro - ungarici a sostituire gli uomini in guerra, in quella guerra del 1915-18 che ha ancora tante pagine oscure.
Oggi l’Asinara con il suo Parco cerca di cancellare le tragedie vissute nella prima guerra mondiale. I turisti richiamati dalla sua bellezza possono cogliere i “segni” del suo passato remoto. Per la verità, nel visitare l’isola degli asinelli io ho provato un senso di disagio, di tristezza, come se ancora vi aleggiasse lo spirito di tanta gente che lì ha molto sofferto. L’ingegnere Congiatu, responsabile dei servizi tecnici del Parco, è un appassionato della storia dell’isola, chiamata in passato la Cajenna d’Italia, cerca di leggere nelle molte tracce rimaste gli eventi che si sono succeduti dal 1885 ai primi del 1900. Ma qui, con l’aiuto del diario del generale Ferrari, comandante del presidio all’epoca dei fatti, cercheremo di ripercorrere la storia dei prigionieri austro – ungarici, che dal dicembre del 1915 al luglio del 1916 furono accolti nell’Asinara.
Nell’autunno del ’15, in seguito all’offensiva del più forte esercito tedesco, i Serbi furono costretti alla ritirata trascinando con loro i prigionieri austriaci. Questi erano in 70000, a piedi, nei monti innevati dei Balcani e morirono a migliaia per fame e maltrattamenti. Un superstite scriveva che vi furono anche casi di cannibalismo. Arrivarono decimati al porto albanese di Valona dove scoppiò anche il colera. I prigionieri dovevano essere consegnati alla Francia ma, per frenare il contagio, fu chiesta ospitalità all’alleata Italia che li destinò al Lazzaretto mediterraneo, cioè all’isola dell’Asinara. La storica Carla Ferrante dell’Archivio di Stato ci dice che all’epoca nell’isola c’erano già un migliaio di prigionieri con 350 militari italiani, un ospedale con 30 letti, una direzione sanitaria, uffici, magazzini ed un forno crematorio: strutture insufficienti per accogliere migliaia di uomini che giungevano in piroscafo affamati e malati, dopo due mesi di marcia sui Balcani. Mancavano le cose più essenziali, acqua, luce, medicine e scorte alimentari per questa moltitudine di uomini ridotti a scheletri. Erano austriaci, ungheresi, boemi, croati, rappresentanti dell’impero asburgico ormai allo sbando. I malati di colera morivano a migliaia, i corpi gettati in mare finivano spesso nelle reti dei pescatori di Stintino e Portotorres, tanto da indurre il prefetto di Sassari ad intervenire e così si aprirono delle fosse comuni in riva al mare. Ad opera del generale Ferrari e a tempo di record, l’isola fu trasformata in un gigantesco accampamento e si realizzarono sei campi di cui uno riservato agli appestati. Ci fu, promossa da lui, una grande mobilitazione. Medici e personale sanitario giunsero da Sassari e Cagliari e, benché fossimo in guerra, ci fu una gara di solidarietà per quei poveretti scalzi e seminudi. Arrivarono scarpe, pezze da piedi, giubbe e il necessario per i campi, tende, stuoie, paglia e coperte, gavette e attrezzi da lavoro e persino strumenti musicali. Vi erano, in quel miscuglio di lingue e culture diverse, anche artisti e musicisti. E’ bello pensare che uno di essi, giunto a Villacidro a sostituire un lavoratore in guerra, sia stato ben accolto e che, innamoratosi della nostra bella chiesa, abbia dedicato il tempo libero e il suo talento di pittore ad affrescare il nostro presbiterio. Tante sono anche all’Asinara i resti delle opere dei prigionieri artisti, fino ad una decina di anni fa, vi era una scultura chiamata “il viaggio”, ne è rimasto il basamento e rappresenta una folla di uomini disperati. I ruderi parlano di cappelle; di una è rimasta la cupola con un foro che fa pensare ad una moschea. I prigionieri, curati e sfamati, cominciarono a ristabilirsi e a lavorare, ciascuno secondo il proprio mestiere, rendendo gradevole l’aspetto dell’isola. Dal racconto del capitano Agnelli emergono anche i lati meno nobili di chi custodiva i prigionieri, i militari italiani che furono anche duri e spietati. Ciò non toglie che i prigionieri, a testimonianza anche del bene ricevuto, lasciarono una iscrizione a Tumbarino: “Grazie all’Italia, nostra salvatrice”. Mentre l’ultimo convoglio si apprestava a salpare per la Francia i 1200 prigionieri si levarono i berretti gridando: Viva l’Italia!

Mariolina Lussu

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