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I riti liturgici della Settimana Santa tra tradizione e storia

I riti della Settimana Santa, oggi sono davvero sentiti e partecipati più di qualsiasi altra ricorrenza religiosa, tanto da richiamare in diversi paesi sardi molti turisti (Cagliari, Alghero, Iglesias, Teulada), soprattutto quando da alcuni decenni la riscoperta del passato ha indotto a riproporre fedelmente tradizioni e consuetudini che erano state dimenticate.
Secondo molti studiosi le liturgie della Settimana Santa sarebbero state introdotte in Sardegna a partire dal Quattrocento fino al Seicento, dagli Aragonesi prima e dagli Spagnoli poi. Altri ne farebbero risalire l’origine alla chiesa greca, mentre agli Spagnoli spetterebbe il merito di averli diffusi nell’isola arricchendoli di pathos e solennità, soprattutto con la presenza delle confraternite.
Secondo questa atavica tradizione, pertanto, nei riti della passione si trovano usi e costumi uniti a qualche elemento folcloristico (i costumi) o addirittura pagano (su ninniri – su scoccia ra’- i matraccas) legato al ciclo dell’attività contadina, che farebbe coincidere il concetto di morte e risurrezione con il risveglio della natura e con i primi frutti dei campi.
Anche a Villacidro la tradizione dei riti della Settimana Santa si conserva quasi fedelmente, sia nei riti liturgici sia nella pratica religiosa dei fedeli, che è ogni anno sempre più popolare e sentita.
Però i modi di vita della società attuale hanno sicuramente portato un “sentire” diverso e l’abbandono di alcune usanze legate agli stili di vita di un mondo contadino, povero e chiuso. Come ricorda qualche anziano, nel mercoledì santo si svolgeva una processione con la statua di Gesù che partendo dalla chiesa di S. Efisio, ora inesistente, attraversava le vie del centro. Il giovedì i fedeli facevano il giro delle chiese: in particolare si andava a visitare nella chiesa del Rosario il simulacro della Madonna Addolorata, cui veniva recitata una lunga e bellissima preghiera in sardo. Il digiuno era strettamente osservato: iniziava il giovedì, mangiando le fave o il baccalà, proseguiva il venerdì, giorno in cui si mangiavano appena due mandorle o due fichi secchi (conservati in “sa panada” o in “su crispesu”) e si beveva solo del caffè (su stratu); esclusi erano poi le uova e il formaggio; neppure ai cani, che venivano legati, si permetteva di bere il siero. In chiesa in segno di lutto tutte le statue venivano coperte con un telo viola. Il silenzio era assoluto. Le madri raccomandavano ai figli di non tentare di attingere all’ingresso in chiesa l’acqua santa che non c’era, perché il fatto avrebbe portato male. Un anziano ricorda che nella Via Crucis “su mommoti” era impersonato da giovani che avevano ricevuto una grazia, che erano scampati ad un grave pericolo o che avevano fatto una promessa. Ricorda come fatto molto curioso la partecipazione numerosa di bambini di tutte le età ma soprattutto piccolissimi in braccio alle madri: “Sembrava una processione di bambini e molti indossavano il saio di S. Francesco”.
Il sabato mattino alle ore dieci finiva il digiuno e, dopo il rito di benedizione dell’acqua e del fuoco, le campane suonavano a gloria per tutto il giorno fino alla domenica di Pasqua, durante il quale si svolgeva “Su incontru” e dopo la breve processione si celebrava la messa solenne.
Era un giorno speciale di festa, spesso di fidanzamenti, tutto veniva preparato con cura: l’abito buono, la pulizia della casa profumata di alloro e menta, gli oggetti in rame lucidati con limone, le saporite “pardule”, il pane fresco e “su coccoieddu” con l’uovo per i bambini, i “mandadas” dell’agnello vivo e infiocchettato al padrino di battesimo e del formaggio con della ricotta ai parenti.
Il lunedì di Pasquetta infine molte ragazze andavano a ballare alla Croce di Seddanus sperando di incontrare l’anima gemella, ma come dice una testimone: “Medasa d’acquistanta e medasa du perdianta!”

Dina Madau

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